Miti sulla birra da sfatare

14 Dicembre 2014 0 Di Bertinotti

Chiariamoci le idee

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Questa sezione nasce dalle numerose domande e richieste che ricevo sia via email che dal vivo durante i vari incontri e manifestazioni relative alla birra. Noto che la cultura birraria sta progredendo in Italia, ma il concetto di cosa è la birra e come si produce è ancora abbastanza vago. Ecco quindi una paginetta per neofiti che spero possa contribuire a chiarire qualche idea confusa!


La birra doppio malto! La birra doppio malto non esiste! E’ una invenzione del legislatore italiano che – per motivi di tassazione alla produzione – ha suddiviso le birre in varie categorie (analcolica, light, normale, speciale, doppio malto) in relazione alla quantità di zuccheri contenuti nel mosto di birra. Non c’e’ una stretta relazione diretta tra tale quantità e la gradazione alcolica, nè ovviamente rispetto allo stile: possiamo avere una “doppio malto” di 4.5 gradi alc. ed una “speciale” di 6. In altri paesi ci sono suddivisioni simili: in Belgio ad esempio, la suddivisione è in Cat. S, I, II, III, ma nessuno si sogna di andare al bar e chiedere “una Cat. III, per favore!”. Quindi per piacere, aboliamo il termine…


La birra puro malto ha invece un senso: alcuni (molti, quasi tutti…) produttori industriali utilizzano cereali non maltati come mais, riso, etc…. Vi diranno che è per dare un gusto particolare alla birra, ma in realtà la motivazione è solamente economica: il malto d’orzo è molto più costoso del mais! In generale, tranne per alcune eccezioni di stile, la birra dovrebbe essere fatta solo con malto.


Gli stili della birra sono molti, ma pochissimi li conoscono: la maggior parte degli avventori al bar non va oltre alla “rossa doppio malto”; eppure se vado al ristorante non mi sogno di ordinare “un rosso”, chiedo un chianti, un barbera o un valpolicella. Una buona lettura per conoscere gli stili della birra è questa: stili .


Bionda, rossa, scura si tende a suddividere le birre per colore, ma questo è molto sbagliato: il colore infatti non ci dice molto della birra che stiamo per bere, se non che una birra nera potrebbe dare un carattere “tostato” o che una rossa potrebbe avere note di caramello. Non ci comunica il grado alcolico (una “nera” Guinness ha solo 4.1 Alc, mentre una pallida ed innocua Tennents Super ne ha 9!), né il grado di amaro o il corpo. Parlando di stili (weizen, pilsner, dubbel…) abbiamo una idea ben più precisa di quello che ci aspetta nel bicchiere.


 Trappiste o di abbazia non identificano uno stile di birra! Sono solamente notazioni commerciali: le birre “trappiste” sono prodotte da monaci benedettini “cistercensi della stretta osservanza”, chiamati anche trappisti, con precise limitazioni (numero di laici che lavorano nella produzione, destinazione di quote degli utili in beneficenza…). Attualmente i produttori trappisti che possono fregiarsi del famoso logo esagonale sono 12 (nb: ora 9); sei in Belgio: Chimay, Rochefort, Westmalle, Westvleteren, Achel (nb: venduto a laici), Orval; due in Olanda: Maria Toevlucht (Zundert) e De Koningshoeven (La Trappe). Quest’ultimo lo ha riacquistato qualche anno dopo averlo perso, nel 1999, per un accordo con un grosso gruppo industriale (Bavaria). Poi Engelszell in Austria (nb: chiuso), lo statunitense Spencer (nb: chiuso) e l’italiano Abbazia Tre Fontane, di Roma. L’ultimo arrivato è l’inglese Mount Saint Bernard.
Altri due conventi trappisti commercializzano birra: Mont Des Cats in Francia e San Pedro de Cardeña in Spagna. Questi ultimi due non producono in proprio, ma i francesi si appoggiano all’impianto di Chimay e gli spagnoli a un birrificio laico di Madrid. Per questo non possono utilizzare il logo esagonale in bottiglia.
Per le “birre di abbazia” il discorso è più confuso, dato che non esiste una regolamentazione precisa in merito: sostanzialmente sono birre che per qualche motivazione (ricetta, vicinanza a monasteri, nome della birra…) hanno un riferimento a vere o presunte antiche produzioni monastiche.


Vai con l’alcool: è uno degli elementi della birra, ma sicuramente non il più importante dal punto di vista gustativo: molti domo-produttori mi chiedono indicazioni per “aumentare l’alcool” o più frequentemente si può notare nei bar che molti prediligono bere birre molto alcoliche, giusto per “sballare”. Che senso ha? L’alcool deve “supportare” il gusto della birra (non opprimerlo come nelle famigerate 8.6 o Tennents Super) ed amalgamarsi con aromi, corpo, amaro, maltosità.


La birra fa ingrassare: dipende da che birra, ma in generale è falso! Un normale bicchiere di birra “pils” ha in media 100 calorie, meno di un bicchiere di succo di frutta! Alcune birre con elevato grado zuccherino possono invece arrivare a 250 calorie, la metà comunque di un qualsiasi superalcolico.


Se è amara allora non mi piace: vige il mito che agli italiani la birra piace “dolce”, soprattutto tra gli operatori professionali come rivenditori e baristi. Fermo restando che una buona dose di luppolo (che garantisce l’amaro) rende la birra più beverina perché “pulisce” la bocca alla fine di ogni sorsata, approntando le papille per il sorso successivo, ritengo questo un mito inesistente e frutto di autoconvincimento del bevitore di birra medio: più di una persona ha infatti apprezzato birre extraluppolate dopo essersi dichiarati “non amanti dell’amaro”. Qui vale la qualità intrinseca della singola birra, quindi la parola d’ordine è sperimentare!


Pizza + birra e altri abbinamenti: un luogo comune difficile da eliminare. Così come esistono decine di pizze diverse, esistono anche decine (centinaia!) di birre differenti. Gli abbinamenti non sono quindi scontati e dipendono da cosa si mette sulla pizza! Ritengo che un popolo di amanti del vino come quello italiano abbia accolto per pura pigrizia un luogo comune come questo, dal momento che l’acidità del pomodoro della pizza è difficilmente abbinabile ai vini. In realtà ogni cibo ha una birra abbinabile egregiamente.